Ileana Tozzi – I Varano. I tempi, i luoghi, la storia (5)

Parte V

Fonte: Storiadelmondo n. 26, 7 giugno 2004
http://www.storiadelmondo.com/26/tozzi.varano5.pdf

I Varano, committenti e mecenati

A Camerino, che al crocevia fra Umbria e Toscana intratteneva frequenti relazioni economiche con Venezia, il casato dei Varano aveva rappresentato fin dal basso Medioevo una presenza cruciale per determinare lo sviluppo dell’architettura civile e proteggere l’incremento dell’architettura religiosa.
Ciò risulta essenzialmente dalle fonti documentarie e dalla tradizione antiquaria, poichè gli eventi calamitosi susseguitisi nella storia di Camerino, congiuntamente alla volontà di rinnovare l’assetto dei maggiori monumenti, hanno determinato la distruzione o la dispersione della maggior parte dei manufatti artistici del tardo medioevo.
Ricorriamo dunque al Lilii per comprendere quale fu il contributo dei Varano alla ricostruzione dopo l’assedio e le devastazioni sofferti per mano di Princivalle D’Oria nel 1261 e, nel 1279, dopo il terremoto: quando finalmente la città riacquistò la propria indipendenza, “…Gentile Varani volle esser de’ primi nel fabricare un palazzo nel sasso della città”.
Hanno così origine le “case vecchie” dei Varano, che s’impegnarono del pari “intorno alla Cathedrale. Volendola fabricare sontuosamente, furono chiamati Architetti de’ primi di quel tempo, et un Scultore per le statue di bassi rilievi per la facciata” 1 .
Il grave terremoto che colpì Camerino il 30 aprile 1279 provocò danni notevoli alla città da poco riedificata: “die ultima Aprilis – come annota Pietro Antonio Lilii nel suo Diario – Terremotus magnus fuit Camerini, & in Marchia, & in Ducato Spoletano, quo tempore cecidit campanile S.
Mariae, Turris S. Iacobi, Monasterium Monialium, quod omnes Moniales, praeter unam, interemit”.
Fu dunque necessario riprendere i lavori di consolidamento e di ripristino: la fabbrica del Duomo impegnò in primo luogo l’arcidiacono Berardo Varano, destinato dopo pochi anni a reggere la Diocesi di Camerino.
Nell’ultimo decennio del secolo, i restauri vennero portati a compimento:
“Si terminò parimente all’hora l’adornamento dell’Altare Maggiore della Cathedrale per Guittone Architetto, e riuscì molto nobile, per la materia, che era di pietra, ò marmo bianco, e per il lavoro.
Avanti che fusse atterrato per maggiore abbellimento della Chiesa leggeasi in un sasso scritto

1295. TEMPORE D. BONIFATIJ PAPAE VIII. AC TEMPORE DOMINI RAMBOCTI CAMERINEN. EPISCOPI, AC TEMPORE DOMINI BERARDI CAMERINI ARCHIDIACONI
FACTUM EST ALTARE A’ MAGISTRO GUICTONO OPERARIO HUIUS ECCLESIE” 2 .

Presso la Cattedrale, collegata alle proprie case mediante il “ponte di Madonna” la famiglia Varano godeva del diritto di sepoltura, avendovi allestita una propria cappella.
Se ne ha notizia nel testamento di Rodolfo Varano (+ 1384), a cui la tradizione e la devozione popolare attribuisce il merito di aver condotto dalla IV Crociata la venerata icona della Vergine, per cui fu eretta nella contrada di Muralto la chiesa di Santa Maria in Via, così detta “ come che fusse ritrovata l’effigie ò nella strada, ò per causa di quel viaggio”.
I numerosi miracoli attribuiti all’intercessione della Madonna, esposta pubblicamente o portata in processione in tempi di siccità e di carestia, avvalorarono l’ipotesi “ che fosse una delle dipinte dal Vangelista S. Luca”.
Si tratta, in verità, di una pregevole tempera su tavola realizzata da un anonimo pittore dalle ascendenze umbre o abruzzesi, come vuole il Vitalini Sacconi 3 , secondo moduli stilistici diffusi lungo l’asse appenninico dalle Marche, all’Umbria, all’alto Lazio, all’Abruzzo: la Vergine in Maestà è raffigurata in trono, il volto serafico, il sorriso contenuto, lo sguardo perso in una contemplazione i cui termini sfuggono all’esperienza ed alla capacità di comprensione di chi si raccoglie in preghiera ai piedi dell’immagine sacra.
Essa offre alla contemplazione dei fedeli il Divino Bambino, ritratto come puer senex, misurata nel gesto ieratico, condiviso dal simmetrico, controllato atto del Figlio che tende il braccio verso di lei.
Entrambi sono riccamente vestiti, ed i ricchi drappeggi che avvolgono le due figure esaltano il senso del sacro e del divino che il «Maestro di Camerino» evoca sapientemente nell’impaginazione del trono, dai raffinati geometrismi delle decorazioni, e nella prolessi figurativa dell’Annunciazione, alla base dell’icona.
L’atto che da inizio alla straordinaria vicenda della Vergine Madre del Dio che si fa uomo è narrato con sincera adesione al dettato evangelico, non senza qualche riferimento alla tradizione degli Apocrifi: l’Arcangelo dalle ali policrome, che richiamano il grande modello del Cavallini di Santa Maria in Trastevere, rivolge a Maria il suo annuncio, provocando in lei una reazione di fuga.
La giovane si ritrae, volgendosi quasi a cercare rifugio all’interno della casa, ma il comando divino è ineludibile, irradiato dalla luce dello Spirito che piove su di lei e la illumina quasi ad evocare una «conceptio per aurem».
Al di là dalla pia leggenda legata alle imprese in Terrasanta, non è da escludere un legame fra l’icona di Santa Maria in Via ed i prodromi del potere varanesco, se la preziosa tavola può datarsi intorno al 3° quarto del XIII secolo, al tempo delle imprese di Berardo, che dovette promuovere, forse con intenti votivi, anche la realizzazione di un affresco raffigurante un Martire co’ ferri pendenti dalle mani, come … San Venanzio, protettore di Camerino, ed il committente rivestito della «divisa dal vaio piegato» secondo l’arme dei Varano, presso la Santa Casa di Loreto 4 .
Il dipinto in questione doveva decorare il più antico allestimento del santuario lauretano (fine XIIImetà XIV sec.), circondato da un porticato sostenuto da colonnette ottagonali in laterizio.

Per la cappella del Duomo, i Varano fecero realizzare la statua lignea della Madonna della Misericordia, detta dai camerinesi “ la Madonna bella”, un pregevole esempio della scultura locale, che recepisce e fonde le istanze artistiche derivate dall’Umbria, dagli Abruzzi, dalla Toscana, nonchè l’urna di Sant’Ansovino, costruita fra il 1390 ed il 1418 secondo i moduli stilistici e
compositivi propri di Tino da Camaino e Giovanni Pisano.
I Varano favorirono del pari la fioritura delle arti figurative, tanto da poter riconoscere una vera e propria “Scuola di Camerino”, in cui si segnalano stilisticamente Arcangelo di Cola, Girolamo di Giovanni, Giovanni Boccati.
Le personalità artistiche dei tre maestri, focalizzate dagli studi del Longhi e dello Zeri, maturano in un contesto culturale aperto a recepire le sollecitazioni e le istanze che caratterizzano la fioritura delle arti figurative fra medioevo e prima età moderna.
Non è possibile indicare il compito assolto dai maestri della scuola di Camerino, dal folignate Niccolò Alunno e dal veneziano Carlo Crivelli nella decorazione del palazzo rinascimentale voluto da Giulio Cesare, di cui abbiamo una sommaria descrizione ad opera di Camillo Lilii, che ebbe la ventura di recuperare i dipinti raffiguranti i ritratti idealizzati “ de Prencipi, e delle Principesse de’ Varani … in una stanza del Palazzo nuovo … rinvenuti, e discoperti, perche barbaramente erano stati offuscati col bianco, e con la calce. Ridolfo dunque vestito d’una gran roba di broccato tiene per le mani Costanza Smeducci sua consorte nata di Bartolomeo, e moglie per avanti di Galasso Chiavelli Signore di Fabriano, e susseguentemente à lato di lui si vede effigiato Giovanni con Bartolomea di San Severino madre di Giulio … Dopo à Giovanni assisa in una gran seggia, et appoggiata con la destra ad una colonna vedesi la Prencipessa Violante Appiani Colonna Nipote del Sommo Pontefice Martino Quinto, e moglie d’uno dei figli di Berardo. Dopo di lei Piergentile hà per le mani Elisabetta Malatesta figliuola di Galeazzo Signore di Pesaro, e madre di Ridolfo Quarto. Ne’ lati d’una gran finestra sono ritratti Gentilpandolfo, e Berardo, ma senza le loro consorti. Nell’altre facciate ne vengono appresso figurati l’istesso Ridolfo IV. Camilla d’Este sua moglie co’ figli à lato, e Giulio con Giovanna Malatesta, e co’ figli parimente in vari luoghi di quella stanza ritratti, e figurati” 5 .
Oltre a questa stanza affrescata con le effigi dei Signori di Camerino, altre recavano cicli pittorici dedicati ad illustrare “ le favole de’ Gentili”, mentre presso la Stanza detta della Fortuna erano “ al naturale dipinti … i due grandi illustratori della militia Italiana Francesco Sforza, e Giacomo Piccinini, questi semplicemente, ma l’altro tirato sopra un Carro dalla Fama, e dalla Fortuna con le tre Parche avanti, ch’ordiscono i stami della sua vita” 6 .
Il Lilii offre degli affreschi rinascimentali del palazzo di Giulio Cesare Varano una lettura puramente descrittiva, che non riesce a cogliere gli aspetti legati all’elaborazione formale che pure dovevano essere determinanti nella selezione dei personaggi, nell’attribuzione di segni e simboli densi di significato, legittimando e celebrando ad un tempo i fasti del casato.
Per quanto attiene alla chiave interpretativa del ritratto, inteso letteralmente come riproduzione fedele delle sembianze di un signolo personaggio, ci soccorre nei riguardi di Giulio Cesare e della figlia suor Battista l’ Annunciazione di Sperimento, opera di Girolamo di Giovanni, ora conservata presso la Pinacoteca di Camerino.
L’artista, che si segnala come il portavoce della “scuola camerinese”, aperto alle istanze pittoriche maturate nell’ambiente artistico del Veneto 7 , dimostra di avere appreso la lezione di Piero della Francesca, mantenendosi però sostanzialmente fedele ad una propria colta e sensibile cifra stilistica.
Il dipinto si snoda su due piani paralleli: la scena che da il titolo all’opera viene raffigurata in basso, nel vasto spazio ortogonale la cui prospettiva è tessuta da trame architettoniche di sobria eleganza formale, mentre nella lunetta sovrastante è inscritta l’Imago Pietatis, in uno spazio rarefatto, affollato dalle figure di santi ed angeli.
Girolamo di Giovanni rivela il saldo possesso di una misura formale, fondata su un rigoroso studio prospettico che gli consente di scorciare diagonalmente il punto di fuga centrale del brano dell’Annunciazione, giocando con le volumetrie degli edifici svuotandoli ed alleggerendone la materia, quasi fossero quinte teatrali, mentre nella lunetta la prospettiva è lo strumento che gli consente di condensare intorno al sepolcro un elevato numero di personaggi, dai santi francescani raffigurati simmetricamente di scorcio, fingendo quasi che il bordo della tomba sia un paliotto d’altare, alla Vergine affranta, al San Giovannino compunto in un gesto estremo d’omaggio al Maestro, dagli Angeli che ricapitolano le espressioni del dolore sbigottito, inconsolabile dell’infanzia, all’intenso volto maschile, in cui il Vitalini Saccono indica l’autoritratto dell’artista, ritratto sotto il braccio destro del Cristo morto.
La scena sottostante è invece concentrata sul dialogo sublime che sta per svolgersi entro lo spazio rarefatto della Santa Casa: l’Arcangelo è inginocchiato al cospetto della Vergine, le rivolge il suo saluto, Ave, Gratia plena, che s’imprime in lettere auree sulla tavola dipinta.
Maria solleva appena lo sguardo dal suo libro d’ore, la luce divina la sfiora trapelando dalle finestrine della casa.
Da sinistra, dietro alle ali dell’angelo, assistono alla scena i committenti, le cui figure sono appena convenzionalmente rimpicciolite: inginocchiati e compunti, sono ritratti il signore di Camerino, Giulio Cesare Varano, e suor Battista sua figlia.

L’individuazione dei committenti nei due più illustri Varano del XV secolo fu proposta dal Feliciangeli, che datava dunque l’esecuzione della tavola intorno al 1483-’84, epoca della riedificazione del monastero di Santa Chiara e del rientro della clarissa da Urbino.
Il Berenson, seguito dal Vitalini Sacconi, propone una datazione più alta del dipinto, smontando così l’ipotesi che i due personaggi ritratti possano essere Giulio Cesare e suor Battista Varano.

Eppure, alla freschezza realistica del ritratto si unisce sapientemente l’intuizione psicologica che coglie nella rigidità del profilo dell’uomo, vestito di un impeccabile robone rosso, l’orgogliosa consapevolezza della propria dignità e del proprio ruolo, mentre la monaca dell’Ordine delle Pauperes Dominae seguaci di santa Chiara si protende ammirata, estatica, verso la scena dell’Annunciazione.
Accogliendo l’ipotesi del Feliciangeli, ci troveremmo di fronte all’opera più tarda eseguita da Girolamo di Giovanni, in cui l’artista tocca i vertici espressivi della sua pittura.
Di Giulio Cesare Varano alcuni storici marchigiani individuano la silouette in una delle figure della Madonna del Monte di Caldarola, opera di Lorenzo d’Alessandro (1491).
Le sembianze del potente signore e mecenate rinascimentale, già delineate nel profilo della medaglia commemorativa realizzata dall’orafo ferrarese Antonio Marescotti 8 , sono fedelmente ritratte nel busto marmoreo che sovrastava la porta d’ingresso alla corte del palazzo, oggi esposto presso l’aula magna del Comune, in cui si ravvisa la maniera del Pollaiolo.
Un documento cinquecentesco così lo descrive: “ il busto in marmo armato… con zazzarino e senza barba … la bocca è in fuori quasi aguzza et in faccia dalle due bande appariscono tre crespe lunghe … il naso è corto et aquilino … faccia colma, la fronte è larga, nelle ciglia è rilevata … la vita mostra di essere piena”.
I carri trionfali descritti dal Lilii come parte integrante degli affreschi dedicati ad eternare la gloria militare di Francesco Sforza e del Piccinino non possono non rammentare un dipinto fra i più celebri del Rinascimento italiano, anch’esso indirettamente legato a casa Varano: il Dittico dei duchi di Urbino, realizzato da Piero della Francesca per il Duca di Urbino, che delinea, affrontati, i profili di Federico da Montefeltro e di Battista Sforza, figlia di Alessandro e di Costanza Varano, anch’essa raffigurata in un importante dipinto.
Presso le sale dei Musées Royaux des Beaux Arts de Belgique a Bruxelles è infatti custodito il cosiddetto Trittico Sforza, opera pregevole del fiammingo Rogier van der Weyden: nella pala centrale, dedicata al tema della Crocifissione, sono raffigurati ai piedi della croce, in posa di committenti, Alessandro Sforza e Costanza Varano e, alle spalle della giovane sposa, il fratello Rodolfo, ritratto poco più che adolescente.
L’impostazione del trittico s’inscrive nella tradizione fiamminga della prima metà del XV secolo: la sequenza delle immagini è scelta all’interno della Storia Sacra, ricapitolando gli episodi salienti della vita di Cristo, dalla Natività alla Crocifissione, inseriti in un contesto storico fortemente attualizzato.
Gerusalemme, con le sue torri munite, le sue mura, i suoi campanili, è una opulenta città della prima età moderna, i Signori inginocchiati al cospetto della croce sono là a rappresentare, in virtù del loro rango, l’umanità che per i suoi peccati ha determinato il sacrificio supremo e l’oltraggio del Golgota.
La tavola centrale del trittico di van der Weyden viene dunque sapientemente impostata su due diversi piani, l’uno contingente, di contesto, l’altro metafisico e simbolico, destinati a riflettersi l’uno nell’altro in un complesso gioco d’immagini speculari nella loro rigorosa simmetria.
Il dipinto, che forse non lasciò mai le Fiandre per essere consegnato al committente italiano, va datato fra il 1445, anno delle nozze di Costanza Varano con Alessandro Sforza, signore di Pesaro, ed il 1447, anno in cui la giovane sposa morì di parto a soli ventuno anno di età.
La figuretta fanciullesca di Rodolfo, nato nel 1428, conferma dall’interno tali elementi ed induce anzi ad ipotizzare una datazione alta, aprendo però altri problemi in ordine all’esecuzione del trittico da parte del van der Weyden, che fu in Italia soltanto dal 1449, quando si mise in viaggio per il Giubileo.
Al ritorno da Roma, il pittore fiammingo fu ospite di Lionello d’Este e ricevette varie commissioni da Ferrara e Firenze.
Se, come è probabile, il dipinto fu commissionato da Alessandro Sforza in occasione delle nozze con Costanza, dobbiamo ritenere le effigi dei tre giovani nobili come silouettes accademiche e non come attendibili ritratti, oppure dobbiamo ipotizzare l’invio dall’Italia di bozzetti utili a raffigurare le sembianze della bella sposa sfortunata, celebrate dall’umanista Angelo Galli da Urbino:
“… la sua faccia bella
mostra d’inverno sempre primavera,
real costume, aspetto da signora,
viso de dea” 9 .

I ritratti urbinati realizzati da Piero della Francesca, destinati a seguire a Firenze Claudia de’ Medici, vedova di Federico Ubaldo della Rovere, sono realizzati su pannelli lignei dipinti su entrambe le parti, l’una raffigurante il personaggio, l’altra con delle scene allegoriche destinate a celebrarne le virtù.
Tanto le virtù politiche e militari di Federico II, quanto le doti muliebri di Battista Sforza sono evocate ricorrendo all’espediente del carro trionfale.
Il cartiglio posto al di sotto della scena ne chiarisce l’impostazione, lasciando poi ampio spazio all’esercizio della lettura iconica:

“CLARUS INSIGNI VEHITUR TRIUMPHO
QUEM PAREM SUMMIS DUCIBUS PERHENNIS
FAMA VIRTUTUM CELEBRAT DECENTER
SCEPTRA TENENTEM”

è quanto si legge nel pannello posteriore del ritratto di Federico, raffigurato insieme con le Virtù Cardinali sul carro aggiogato a due maestosi cavalli bianchi, incoronato dalla Fama alata, mentre Battista,

“ QUE MODUM
REBUS TENUIT SECUNDIS
CONIUGIS MAGNI DECORATA RERUM
LAUDE GESTARUM VOLITAT PER ORA
CUNCTA VIRORUM”

viaggia su un carro trainato da due liocorni, gli animali fantastici che nei bestiari medievali erano stati definiti come simbolo di pudicizia, in compagna delle Virtù Teologali.
Il tenore dell’iscrizione, la rarefatta atmosfera che pervade la scena hanno fatto sì che la critica d’arte ipotizzasse la realizzazione del ritratto di Battista dopo il 1472, anno della sua morte.
Sta di fatto che il registro narrativo scelto da Piero della Francesca, in perfetta sintonia con la committenza ducale, privilegia l’idealizzazione di Federico II e della moglie Battista, “ esaltati in una visione che li lega non già ad un momento preciso umanamente vissuto, ma alla loro dignità e al loro potere, infine alla loro altezza morale” 10 .

Legato invece, con chiaro intento devozionale, è il simulacro argenteo del Santo patrono di Camerino offerto come ex-voto da Giovanna Malatesta e Giulio Cesare Varano per la nascita del primogenito Venanzio, avvenuta presso il castello di Pioraco il 19 ottobre 1476.
Il Lilii riporta nella sua storia di Camerino i versi celebrativi, composti per l’occasione dal Lazzarelli, poeta di San Severino 11 .
Benchè il fine encomiastico del poemetto concentri l’attenzione del Lazzarelli sulla nascita del legittimo erede, su cui aleggiano le speranze dei cortigiani, la pur sommaria descrizione della grande statua argentea è sufficiente a ritenere che il valore dell’opera non dovesse essere semplicemente venale.
Gli eventi tragici che seguirono la conquista di Camerino da parte del Borgia determinarono la distruzione della statua, ordinata dall’unico superstite di casa Varano, Giovanni Maria, che fin dal dicembre 1502 rientrò in armi in città impegnandosi a vendicare la morte del padre e dei fratelli ed a riacquistare lo stato.
In queste circostanze, “scarso di denari, diede di piglio à gli argenti delle Chiese, con obligo però di reintegrarnele, ò con permutarle co’ beni stabili. Hebbe per tanto, e distrusse la statua d’argento di valore di scudi mille, offerta nella nascita di suo fratello alla Chiesa di San Venanzo.
Volle da gli Agostiniani gli argenti della loro Sagristia, e benche li desse in cambio il podere, chiamato il Lavarito, presso le Castella di Sefri, e di Sorti, & il poggio d’un Castello diruto, chiamato lo Stuffolo, non hebbe però giammai premura di farne havere loro il possesso, ò di rifare la statua per la chiesa di San Venanzo, se non che nel testamento lasciò il denaro per formarla di nuovo, ma inutilmente” 12 .
La statua di San Venanzio fu realizzata finalmente nel 1764 dall’argentiere romano Tommaso Politi, secondo i moduli dell’iconografia tradizionale, per conto del vescovo di Camerino Francesco Vivani.
Nonostante questa inadempienza, solo apparentemente inspiegabile, Giovanni Maria fu anch’egli cultore delle arti e protettore di pittori ed architetti per lasciare il suo segno nella città finalmente pacificata ed eretta capitale del ducato.
Caterina Cybo, moglie del I° duca e grande protettrice della riforma cappuccina, fece eseguire da Mattia della Robbia intorno al 1530 una pala d’altare per la chiesa del convento di Renacavata: si tratta di una composizione policroma in maiolica smaltata ed invetriata dai cromatismi intensi e pastosi, giocati sulla gamma dei giallo, dei blu, dei verdi.

Lo spazio, dal fondale azzurro, tipico della bottega robbiana, è definito dalla predella scandita in cinque formelle e dalla cornice in cui i simboli della Passione si alternano agli emblemi francescani.
Al di sotto dell’arco a tutto sesto, due angeli sorreggono i pesanti tendaggi del padiglione teso al di sopra del trono della Madonna in maestà, illuminata dalla grazia dello Spirito Santo, affiancata da San Francesco e Sant’Agnese.
La breve, luminosa età del Ducato è destinata a chiudersi nel breve arco di tempo che segue la morte di Giovanni Maria ed è segnata dal fallimento del tentativo di riconciliazione e fusione del ramo camerte e del ramo ferrarese del casato.
L’ultima, altissima testimonianza del mecenatismo dei Varano va rintracciata nel Ritratto di gentildonna, comunemente detto “ la Muta”, che raffigura Giovanna Della Rovere, vedova di Venanzio, prima estimatrice e protettrice del giovane pittore urbinate Raffaello Sanzio 13 .
La discendenza di Ercole Varano, “ privato gentiluomo” dopo la cessione del Ducato di Camerino ai Farnese, continuò ad intrattenere rapporti di committenza con gli artisti del vivace ambiente culturale ferrarese, senza però rivestire più un ruolo determinante nella promozione dell’architettura e delle arti figurative.

Nel 1888, il Comune di Camerino acquistò dagli eredi del Senatore Rodolfo una collezione di 44 dipinti, raffiguranti in effigie gli antichi signori di Camerino ed i Varano del ramo ferrarese, destinandoli alla Pinacoteca o alla decorazione delle sale di rappresentanza del Comune.
I quadri successivi al XVI secolo possono considerarsi veri e propri ritratti, spesso di buona scuola.
Tra questi, assumono interesse documentario, oltre che storico-artistico, i dipinti raffiguranti nell’ordine:

  • Ercole I , olio su tela (2,08 x 1,19) di scuola ferrarese (Inventario 1905, n° 19)
  • Piergentile II, olio su tela (2,09 x 1,14) di scuola ferrarese fine sec. XVI (Inv. 1905, n° 27)
  • Fabrizio, olio su tela (0,46 x 0,33), copia dell’originale di Gabriele Cappellini, detto “el Calegarin”, sec. XVI (Inv. 1905, n° 46)
  • Giulio Cesare II, olio su tela (1,12 x 0,89), sec. XVII (Inv. 1905, n° 43)
  • Chiara Pio di Savoia, olio su tela (0,91 x 0,72) sec. XVII (Inv. 1905, n° 42)
  • Ercole II fanciullo, olio su tela ( 0,48 x 0,36), sec. XVI (Inv. 1905, n° 41)
  • Carlo, olio su tela (0,77 x 0,63)
  • Giuseppe, tempera su rame (0,14 x 0,11) sec. XVII (Inv. 1905, n° 17)
  • Alessandro, vescovo di Macerata, olio su tela (0,82 x 0,64) datata 1702 e firmata dal pittore Bartolomeo Cuminelli (Inv. 1905, n° 47)

A questi dipinti, raffiguranti le effigi dei Varano di Ferrara, si aggiungono il ritratto del poeta Alfonso (pastello su tavola, 51 x 38) donato dal Senatore Rodolfo al Liceo Ginnasio di Camerino ed il busto di terracotta modellato da Giuseppe Orlandini (1788) sulla maschera mortuaria dell’Arcade

1 C. Lilii, Istoria della città di Camerino, cit. p. II, L. II, p. 22
2 Ivi, p. 60
3 G. Vitalini Sacconi, Macerata e il suo territorio, La pittura, Milano 1985, p. 18.
4 C. Lilii, cit., pp. 75-76.
5 Ivi, pp. 165-166.
6 Ibidem, p. 241.
7 E’ documentato, per Girolamo di Giovanni, un soggiorno a Padova nel 1450.
8 Questa è l’iscrizione della medaglia commemorativa: DIVUS IULIUS CAESAR VARANENSIS DUX BELLO ET PACE PRECIPUUS.
9 G. Boccanera, Rodolfo e Costanza da Varano dipinti da van der Weyden, “Quaderni dell’Appennino Camerte”, Camerino 1983.
10 P. Zampetti, Pittura nelle Marche, vol. II, Dal Rinascimento alla Controriforma, Firenze 1989, pag. 39.
11 C. Lilii, cit., pp. 225-226.
12 Ivi, pp. 264-265.
13 Giovanna Della Rovere raccomandò Raffaello al gonfaloniere Soderini, in occasione del soggiorno fiorentino del 1504.

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