Ileana Tozzi – I Varano. I tempi, i luoghi, la storia (3)

Parte III

Fonte: Storiadelmondo n. 24, 26 aprile 2004
http://www.storiadelmondo.com/24/tozzi.varano3.pdf

Le origini

Fin dal 1928, Rodolfo Varano, quinto duca della rifiorita dinastia, provvide con rigorosa acribia ed appassionato impegno a recuperare le carte centenarie dell’archivio storico della casata, disperse in seguito alle molteplici vicissitudini occorse in così lungo arco di tempo: alla sua opera è dovuta la compilazione di un albero genealogico ordinato secondo una documentazione ampia e complessa, in cui la storiografia più accreditata trova frequente conferma negli atti e nei carteggi privati.
Così, dunque, viene ricostruta la genealogia del Casato: Rodolfo da Varano, sulla cui figura gli storici della Marca di Ancona presentano pareri discordanti, viene considerato come l’avo dal quale deriva il cognome della famiglia. Figlio di Rodolfo è Prontaguerra, abitator Camerini (1130).
Un istrumento notarile del 1253 ricorda quattro dei suoi figli, Gentile, Gualtieri, capo della linea dei signori di Urbisaglia, Berardo, Guarnieri.
Da Gentile, discende Rodolfo, la cui attività politica e militare è documentata fra il 1199 ed il 1207.
Dal matrimonio con Rocca, ha cinque figli: Accorambone 1 , nato nel 1170, morto prima del 1254, dalla cui discendenza derivano gli Accoramboni di Tolentino, radicatisi a Roma al tempo del pontificato di Sisto V ed estinti nel XIX secolo, Gentile, Rodolfo, Gualtiero, Alberto.
Seguiamo più da vicino le sorti di Rodolfo, nato intorno al 1174, vivente ancora nel 1230: “documenti del II° e III° decennio del 1200 lo mostrano fra i Maiores del Comune di Camerino e Signore con antica e piena potestà feudale della Rocca di Varano e del territorio circostante. Da questa Rocca i Varano ebbero forse il nome e la potenza. Sorge essa a 7 Km. da Camerino, sopra un alto sperone montano, a picco sulla confluenza del Rio di S. Luca nel Chienti. La posizione inespugnabile, le tasse e le estorsioni che di lassù potevano imporsi ai molti pellegrini e mercanti discendenti e risalenti l’Appennino lungo la valle del Chienti, antichissima via di comunicazione fra la Marca e l’Umbria, dettero ai possessori sicurezza e prosperità nel fosco periodo feudale, autorità e prestigio nel sorgente Comune Camerte il quale poi cresciuto di forza non volle, o non potè strappare un baluardo così importante e munito ai Da Varano. Ai confini del Comune di Camerino
essa rappresentava non solo una fortezza imprendibile ed importantissima per la difesa, ma un punto di appoggio non meno prezioso e sicuro per il libero commercio con i paesi della media e bassa valle del Chienti. Non è questo il primo caso in cui il nemico diviene in tal modo l’alleato ed il
protettore del Comune, il Potente Signore, lasciato il covo d’aquila (rocca di Varano), viene annoverato fra i Maiores della città, ha in mano le forze militari del nuovo stato, e spesso ricopre anche uffici e cariche importanti, come quelle ricoperte da Rodolfo Da Varano, il quale fu Sindaco
di Camerino del 1201, preparando così ai propri discendenti la via della Signoria”.
Il fratello Gentile è il protagonista della ricostruzione dopo gli eventi del 1259: “quando Ecelino (…) alla battaglia di Cassano cadde nelle mani dei Guelfi, morendo poco dopo a Soncino, i Ghibellini, benchè in lui mancasse un uomo, che in Lombardia era l’anima della loro fazione, non si perderono
d’animo e si rivolsero subito a Manfredi di Svevia, Re di Napoli, impegnandolo a proteggere i loro interessi in Italia. Manfredi non fu lento a fare uscire dall’Abruzzo le sue milizie, che furono guidate da Percivalle D’Oria. Penetrando nella Marca, non trovò il D’Oria resistenza, che alle porte di Camerino, città che fu poi costretta ad arrendersi, soggiacendo alla calamità del saccheggio e della distruzione. Gli abitanti spaventati abbandonarono la patria e si rifugiarono sui monti dell’Umbria.
Era con essi fuggito Gentile Varano principale tra Camerinesi o per natali, o per ricchezze, o per valore e ricchezza d’animo. Egli volò a Roma ad implorare presso Alessandro IV qualche soccorso.
Approdavano frequentemente in quei tempi in Italia, Francesi ed Inglesi incamminati alle Crociate.
Aveva altresì Alessandro IV fino dal 1255 offerta la corona di Napoli ad Edmondo conte di Lancaster figlio di Enrico III re d’Inghilterra e sebbene il padre in nome del figlio la ricusasse, non è improbabile che durante le trattative venissero spediti Inglesi in Italia per prepararsi alla guerra
contro Re Manfredi. Qualunque fosse l’origine della comparsa degli Inglesi, è certo che il Papa somministrò a Gentile un soccorso di milizie di quella nazione. Gli scrittori di genealogia, che sono sempre amplificatori, dicono che Gentile fosse capitano generale del Re d’Inghilterra, il che si deve
limitare al comando che ebbe degli Inglesi spediti in suo soccorso dal Pontefice. Ritornato il Varano presso i suoi concittadini, assalì e prese il Castello di Capriglia, e sconfisse Ranieri conte de’ Baschi principale tra’ Ghibellini della provincia. E ricevuti quindi soccorsi di soldati dagli spoletini e dai perugini, presso Pioraco, ricuperò Camerino che era stato dai Ghibellini ridotto in un mucchio di rovine. Alessandro IV, poichè la città libera di Camerino viveva sotto la protezione della Chiesa, vi spedì Jacopo Orsini per regolarne l’amministrazione, e rimettervi il magistrato de’ IX che co’ consigli di credenza formava il governo. E partito poco dopo l’Orsini, Gentile fu nominato capitano a guerra per due anni. Fu istituita questa carica con una autorità dittatoria, onde pronti da un centro partissero i provvedimenti necessari a salvar l’indipendenza di Camerino contro i Ghibellini che non aveano deposte mai le armi, ma fu altrettanto funesta alla libertà de’cittadini. I Varano furono alleati al comando, e i camerinesi cominciarono a riconoscere in quella famiglia una prerogativa di
maggioranza. Gentile senza di cui nulla si operava più in Camerino, non abusò del potere, e mentre il Papa stesso era stato costretto dalle vicende politiche a fuggire da Roma, egli pensò a difendere la patria dall’aggressione de’ nemici e a ricuperare i castelli del territorio. Afflitto Manfredi dalla perdita di Camerino, dopo qualche tempo ordinò a Princivalle D’Oria, che di nuovo si presentasse al cimento, ma giunto Princivalle nel territorio di Spoleto, morì affogato nella Nera nel 1264. Ad
assicurare gli interessi dei Papi e dei Guelfi, venne in Italia Carlo I d’Anjou nel 1265, e colla vittoria di Benevento, ove rimase morto Manfredi, pose termine per allora alla guerra delle fazioni. Gentile nel 1266 fu eletto podestà di Roccacontrada e nello stesso anno di Camerino. Lo fu di S. Ginesio nel 1269, e nel 1282 di nuovo podestà di Camerino. Nello stesso anno fu chiamato da Martino IV a Roma e gli fu conferita la dignità di Conte di Campagna. Morì nel 1284. Vantano i Camerinesi che Gentile abbia ottenuto da Carlo I le reliquie di S. Venanzio tolte dal Re Manfredi che le aveva fatte collocare nel castello di S. Salvatore presso Bari. Molte concessioni di terre a titolo di feudo è detto che gli fosser fatte dai Pontefici, ma gli scrittori accreditati lo negano. E’ certo però che con l’opera
di Gentile I°, nelle lotte dell’esilio e poi nello sforzo della ricostruzione, la famiglia Da Varano acquista un sempre maggior primato civile”.

Gentile si distingue dunque per il coraggio in tempo di guerra, la sagacia in tempo di pace; questo tratto del suo temperamento trova conferma nell’abile politica matrimoniale intrapresa e portata a buon fine, stabilendo dei legami familiari che si rivelano autentiche alleanze.
Egli prende in moglie Alteruccia, figlia del conte Suppo d’Altino, da in sposa la figlia Gualteronda a Fallerone, signore di Fallerone e di Spoleto, mentre la figlia Ringarda (o Rengarda) sposa Bonifazio de’ Castelli. I figli maschi, Berardo e Rodolfo II, si distinguono nella milizia al servizio della Santa Sede. Gentile è a sua volta cappellano pontificio e pievano di Pievefavera. Berardo “fu spedito da’ suoi concittadini in soccorso de’ Perugini contro Foligno. Eletto quindi capo dell’impresa, la guerra fu di breve momento, e Foligno assediata dove’ accettare i patti de’ vincitori per mezzo d’un trattato, che fu conchiuso nel 1289 in Perugia, nella quale città Berardo fu in tale occasione eletto capitano del popolo. Questa guerra che la voce del Pontefice non potè impedire, fu cagione di un interdetto contro Camerino, che presto però fu tolto. Berardo nel 1294 fu eletto capitano del popolo in Pistoja, medesima dignità ricoprì in Bologna nel 1297. Bonifazio VIII lo chiamò in questo tempo ai suoi servigi, e i bolognesi, benchè non avesse compito l’offizio lo lasciarono partire, per avere favorevole il Papa negli interessi della loro patria. Di Berardo si parla più lungamente nella storia dopo che Clemente V nel 1305 trasportò la Sede pontificia in Francia. La Marca d’Ancona era divenuta d’allora in poi il teatro d’una sanguinosa lotta tra i guelfi e i ghibellini. A renderla più feroce e ostinata pullularono le sette, tra le quali alcune abbracciarono le opinioni degli antichi filosofi, altre quelle della mitologia, e con tanta confusione d’idee, che giunsero alcune tra le popolazioni fino all’adorazione di Priapo. Berardo in questa guerra per ordine del Pontefice comandò i Guelfi. Non è vero, ch’egli fosse nominato Marchese della Marca di Ancona da Giovanni XXIII: egli non fu che podestà di Macerata nel 1316, ed il Marchese della Marca, ch’era nominato dal Papa per rappresentarlo nella provincia fu sempre un forastiero e frequentemente mandato di Francia, acciò non potesse dar gelosia alla corte pontificia ch’era lontana, ed il cui potere era in Italia molto vacillante. Seguì Berardo il Marchese della Marca nelle sue imprese contro i ghibellini, e nel 1322 contribuì particolarmente col suo valore alla presa di Recanati, città ove furon trucidati fino i bambini nelle fasce, e che fu data alle fiamme per punirla dell’idolatria. Nel seguente anno Berardo ebbe una memorabile rotta sotto le mura d’Osimo da’ ghibellini, per cui sembra che non gli fosse dato di poter fare altre fazioni. Bernardo non fu mai sempre signore assoluto di Camerino; ebbe l’autorità che vi avevano prima di lui il padre e il fratello. Capo di parte, nulla si faceva senza il suo consendo, e non tralasciò mai alcun mezzo per far trionfare la fazione guelfa, che era quella che lo rendeva ricco e potente. Nel 1300 era stato eletto podestà di S. Ginesio, ove lo fu successivamente per altre cinque volte, avendo sempre i Varano procurato da aver maggioranza in quella terra. Nel 1321 aveva avuto presso di se Cino da Pistoia, che si era reso famoso pei suoi commenti sul codice. Morì Berardo nel 1329, mentre trovavasi in Italia Lodovico il Bavaro, che fu promotore di grandi sconvolgimenti”.
Il fratello Rodolfo è capitano del popolo a Lucca nel 1284, “e come tale è segnato in un trattato del 13 ottobre, in cui i lucchesi si confederarono co’ fiorentini e co’ genovesi contro la repubblica di Pisa. Onorio IV nel 1285 trasferì in lui la carica di Conte di Campagna, che aveva suo padre, ma Niccolò IV che non era molto in buona intelligenza co’ partigiani de’ guelfi, nel 1290 lo tolse da quella dignità, che poscia conferì a Stefano Colonna. Nel 1299 fu podestà di S. Ginesio. Nel 1301 fu eletto podestà di Rocca Contrada, e nel 1303 capitano del popolo di Perugia, ove nel 1304 fu a lui ed alla sua famiglia in perpetuo conceduta la civiltà. In Perugia assistè al famoso Conclave celebrato in occasione della morte di Benedetto XI, in cui dopo undici mesi riuscì ai cardinali francesi di elevare al soglio pontificio un individuo di loro nazione, che si chiamò Clemente V e che trasportò subito la sede pontificia in Francia. Sembra che questa circostanza potesse esser propizia per vedere in Italia risorgere una nazione. Debole e vacillante era il potere che vi avevano gli imperatori, e Clemente V, che si era allontanato non dava coll’opera dei suoi legati motivi di molta gelosia. Ma questi avvenimenti, benchè favorevoli al nobilissimo intento non furono di alcun vantaggio. Se in Italia non vi era un Pontefice, se non vi era un Imperatore, vi era, come d’ordinario nei tempi de’sconvolgimenti politici il predominio de’ ladri e degli ambiziosi, che rendevano vani gli sforzi de’ buoni, che sono sempre in piccol numero. Conntinuò dunque l’Italia ad essere lacerata dalle fazioni de’ guelfi e ghibellini, ed il Varano nell’Umbria comparve sempre qual capo di parte, facendo la guerra con vario evento a’ ghibellini della provincia. In Camerino, ove i guelfi avevano maggioranza, il suo cognome acquistava ogni dì maggior favore, ed egli arricchiva co’ beni, che i camerinesi confiscavano a’ ghibellini, e donavano a lui. Morì nel 1316”.
Le notizie riguardanti Rodolfo sono sommariamente confermate dalla Tavola “Varani in Agro Piceno”, che registra: “Rodulphus I. Comes Campaniae, confirmatus ab Honorio IV. Papa cum fratre, profuit annos 32. obiit A.C. 1316”.

Di Berardo si rammenta oltre al titolo di famiglia, di Conte di Campagna, l’investitura ricevuta da Giovanni XXII: “Bernhardus I Varanus comes Campaniae a Iohanne XXII . Papa in Marchionim Marchiae creatus A.C. 1319 . moritur A.C. 1329 regiminis 13”.
Dalla moglie Galatea, del sangue reale d’Inghilterra, Rodolfo ebbe i figli Giovanni, Sigismondo, Berardo, Smeduccio, Nuccio 2 .
La genealogia prosegue dunque attraverso la discendenza di Berardo, che dalla moglie Emma – morta nel 1336 – ha due figlie, Margherita, andata in sposa nel 1310 a Gentile Gentiloni, signore di Ruvolone o Rovellone 3 e Sofia, moglie di Smeduccio dei signori di San Severino, fondatrice del monastero di Sant’Elisabetta a Camerino 4 , e due maschi, Gentile II° e Gozzo (o Guccio, o Zuccio).
Gozzo è ricordato come dapprima comevicario (1299), poi come podestà di San Ginesio (1305).
Gentile II è a sua volta podestà a Firenze nel 1312, combattente dapprima a fianco del padre, poi capitano generale della Chiesa al tempo di Giovanni XXII: “l’impresa principale , che condusse a buon termine, fu quella di Matelica, in favor della quale tutti i ghibellini erano prontamente, benchè indarno, accorsi. In lui tutti si ridussero gli affari della Marca, quando il cardinal Bertrando che vi era legato pontificio, dovette recarsi in Lombardia per le guerre contro i Visconti. Quando Ludovico il Bavaro venne in Italia per soccorrere i ghibellini, ed impedire in questa guisa, che il partito imperiale vi fosse distrutto, impiegò tutti i mezzi per guadagnare l’animo di Gentile fino ad offrirgli la dignità in Camerino di vicario imperiale, ma egli rifiutò costantemente di attaccarsi alla fazione de’ nemici della Chiesa. Clemente VI nel 1332 temendo però che Gentile potesse alle volte cedere alle seduzioni ed alle offerte dei ghibellini, si determinò nominarlo vicario di S. Chiesa nello Stato di Camerino, ben contento di poter in questo modo premiare la fedeltà dei Varano, e conservare in quello stato l’ombra di un’autorità, che poteva in ogni tratto essere in pericolo. Quando nel 1353 fu spedito in Italia il celebre legato pontificio Egidio Albornoz, Gentile lo accolse con grandi dimostrazioni di devozione in Camerino fino ad atterrare le mura del luogo, ove il legato fece il suo solenne ingresso. Morì Gentile in molta età nel 1355 colla sodisfazione di vedere il nepote Rodolfo costante nel partito della Chiesa, e glorioso per imprese militari. Durante il suo principato la pestilenza desolò lo stato, e Benedetto XII nel 1336 confirmò gli statuti ed i privilegi dei camerinesi.
Gli abitanti di S. Ginesio lo avevano eletto in loro podestà nel 1329, nel 1330 e 1339”.
Il codice varanesco ne riporta, nella genealogia, le notizie essenziali: “Gentilis II . Iohannis XXII . P. capitaneus A. C. 1334 . moritur A. C. 1345 . cum regnasset annos 26”.
Da Gentile, nacquero Gentiluccia, data in moglie a Cecchino di Vinciolo da Perugia, Angelo, che nel 1314 è canonico della cattedrale di Camerino, Berardo, premorto al padre intorno alla metà del sec. XIV. Le sorti del casato passano nelle mani di Rodolfo, annoverato fra i capitani più abili e valenti del suo tempo, validamente affiancato nell’attività di governo dai fratelli Giovanni, detto “Spacalferro”, e Gentile.

Le sorelle Sofia (o Fya) e Leda (o Laida) entrano a far parte della famiglia di Smeduccio di Nuccio da Sanseverino, sposando rispettivamente Stefano e Cola di Smeduccio. Insieme con la sorella Rocchina, sono beneficiarie di un lascito testamentario di 200 lire ciascuna da parte del nonno Gentile II. A Giovanni “Spacalferro”, podestà di San Ginesio nel 1350, si deve la realizzazione del poderoso sistema di fortificazione dell’Intagliata. Provvede inoltre a fortificare il borgo di San Venanzio ed a introdurre in città una comunità di Olivetani.
Nel 1325, depone come teste durante il processo per la canonizzazione dell’agostiniano fra Nicola da Tolentino.
La dichiarazione resa al postulatore da parte del nobiluomo offre un originale spaccato della vita cittadina in età comunale: “Io magnifico cavalier messer Giovanni del fu magnifico cavaliere messer Rodolfo da Camerino affermo che reputo vero e certo quanto si dice di frate Nicola poichè, quando lo vedevo, più e più volte, ho notato, tanto quando predicava che in altre occasioni, che era uomo umile e gentile. Difatti io, con altri giovani della nobiltà che con me facevano i tornei dell’asta, quando il detto frate Nicola predicava, per la grande venerazione che il popolo aveva per lui, molte damigelle andavano ad ascoltarlo; ed io, essendo allora giovane, per attirare l’attenzione delle damigelle che andavano alla predica di padre Nicola, assai volentieri facevo il torneo dell’asta.
E più volte ostacolai il suo dire in maniera che le damigelle uscissero ed il predicatore fosse costretto ad abbandonare la predica; e giammai lo vidi turbarsi per questo motivo, al contrario degli altri predicatori che s’irritano parecchio se sono impediti dal predicare. Quando poi, pentito, andavo a chiedergli scusa del fastiidio datogli, lo trovavo molto affabile e umile nello scusare me e i compagni. E affermo anche che le persone che assistevano alle sue prediche se ne andavano molto soddisfatte” (Atti del processo di canonizzazione, testimonianza n° 28).
La genealogia varanesca descrive Giovanni “ totius Italiae primarius equestris ordinis S. Venantii Castellum muro cinxit. Ludovico, et Ioannae reginae familiarissimus fuit. Diminium simul cum fratre rexit annos 2. Obiit 1387”.
Fedele alle sorti politiche della Chiesa, intimo confidente di Lodovico e Giovanna da Napoli, al ritorno di papa Gregorio IX da Avignone ottenne come premio della lealtà dimostrata la potestà su Tolentino e San Ginesio, insieme con il fratello Gentile. Questi “fu mandato a governar Roma nel 1326 da Urbano V, che risiedeva in Avignone. Il papa abbandonò il soggiorno della Francia nel 1367 per ritornare in Italia, e nel seguente anno chiamò Gentile presso di se, siccome a lui ben affetto, confermandogli la dignità di senatore di Roma. Fu eletto a dispetto de’ Romani, che a tenore de’ loro privilegi volevano un concittadino, privilegi che furono a poco a poco tolti, non già però da Urbano, che volle tornare in Francia. Nel 1375 Gentile fu eletto podestà di Lucca. Scoppiata in Italia la guerra contro Gregorio XI, Gentile prese le parti del pontefice unitamente al fratello Giovanni, con cui si trovò all’inutile difesa di Fabriano. Nel 1376 Gregorio vedendo esposti gli stati pontifici a grandi pericoli, si determinò di ritornare colla Sede Apostolica in Italia e giunto a Roma confermò nel 1377 Tolentino e S. Ginesio a Gentile e a suo fratello, privandone gli altri due ch’erano ribelli.
Poco dopo fu cacciato da Camerino dal fratello Rodolfo, perchè accusato di volerla dare nelle mani delle milizie pontificie. Ma in seguito conciliate le cose della guerra, succedette pacificamente nel 1385 al fratello Giovanni nel governo di Camerino. Quando si trovò a questo posto, la storia non ce lo dipinge più come un uomo parziale per i papi. Volle mantenervisi e non volle mai riconoscere i diritti di supremazia, che la corte pontificia sopra di lui vantava. Andò nel 1387 ad inchinare Urbano VI in Lucca, ma strettamente legato co’ fiorentini e co’ perugini non accondiscese mai a quelle misure che il papa voleva porre in opera per ricuperare in Italia quella preponderanza che aveva ormai del tutto perduta. Gentile non prese però alcuna parte in favore dell’antipapa Clemente VII, ma fermo ne’ suoi proponimenti, benchè segnasse con Urbano un trattato d’amicizia, cacciò dal dominio i nipoti Berardo e Gentile, quando scoprì che tentavano di consegnare Camerino ai condottieri pontifici. Bonifazio IX, che nel 1389 succedette a Urbano VI, conservando egli pure il desiderio di ristabilire il potere pontificio, spedì Andrea Tomacelli suo nipote nella Marca d’Ancona in qualità di governatore. Non riuscì Andrea nei disegni dello zio, e finì nel 1393 a perder contro il Varano una battaglia e a rimanere suo prigioniero. Questa vittoria contribuì a far Gentile ancora più potente, cosichè dai confini di Spoleto all’Adriatico signoreggiava tutti i luoghi in riva al Chienti.

Bonifazio IX piegando alla circostanza ed aspettando tempi propizi segnò con Gentile un trattato di pace, che per lungo tempo fu osservato. Con questo trattato Bonifazio IX diedegli in vicariato S. Ginesio, Castel Cerreto, ponte, Belforte, Tolentino, Montecchio, Sarnano, Amandola, Monte San Martino, Gualdo,Visso e Montesanto nelle diocesi di Spoleto, Fermo e Camerino. Questa concessione fu aggravata da un canone che i Varano devevano presentare ai papi nel giorno dei SS. Apostoli”.
Gentile III, “ fortissimus bellator, in consiliis prudentissimus”, morì nel 1399. Più spregiudicati nella condotta politica erano stati dunque i fratelli, Venanzio, podestà di S. Ginesio nel 1348, e Rodolfo, il sagace governante, valoroso capitano celebrato dalla novellistica del Sacchetti.
A Venanzio, che meritò il soprannome di “Falcifer”, o “Falciailferro” per la straordinaria abilità nel rompere “colle mani i ferri ne’ giuochi di Troppea, così detti dal luogo ove in Camerino si celebravano le giostre”, si deve la costruzione delle “case vecchie”, il più antico nucleo del palazzo varanesco a Camerino. La sua discendenza proseguì con Berardo, anch’egli podestà a S. Ginesio nel 1355, a Fabriano nel 1376, Gentile e Rocchina o Bocchina, andata in sposa ad Ottaviano degli Ubaldini conte della Carda, ava di Federico da Montefeltro, duca di Urbino. I figli di Venanzio “Falcifer” si mantennero in perenne ostilità con lo zio Gentile e con il cugino Rodolfo, nonostante le sollecitazioni di papa Urbano VI a favore di una riconciliazione, che avrebbe peraltro garantito una maggiore stabilità politica per lo stesso pontefice. Esclusi pertanto dalla signoria di Camerino, si resero ad operare come capitani di ventura al soldo di altre signorie: Berardo “nel 1409 era al servizio de’ fiorentini, e portava il loro stendardo nell’esercito da essi spedito a Roma contro il re Ladislao”.
Nel 1418, prese parte alla battaglia “ne’ piani di Viterbo, ove Sforza fu sconfitto”, mentre Gentile “nel 1388 trovavasi in Monte dell’Olmo e ne fu cacciato dal popolo, che gli si ribellò. Obbligato alla fuga, si ricovrò in Lombardia, ove si pose agli stipendi di Gian Galeazzo Visconti. Passato con Taddeo Dal Verme nel 1391 alle guerre contro i fiorentini, rimase prigione alla battaglia di Poggio a Cajano”.
Il più celebre dei condottieri di casa Varano resta ad ogni modo Rodolfo II, dapprima crociato al tempo della presa di Smirne, poi al servizio di casa d’ Angiò, governatore degli Abruzzi e di nuovo, nel 1353, al servizio della Chiesa quando il cardinale legato Egidio Albornoz ebbe l’incarico di rinsaldare le forze guelfe, indebolite dalla cosiddetta “cattività avignonese”.
Registra così le imprese di Rodolfo II la genealogia della casata: “ Rodulphus II. A Clemente VI . In Smirnam contra infideles missus est. Postea a Ludovico rege Neapolitano, et Joanna I Regina in Abruzo vice rex creatus, et cum Egidus Albernotius Cardinalis in Italiam ob res ecclesiasticas veniret, pro gubernatore in Marchiam missus, et tempore InnocentiiVI . Ecclesiae signifer, bis etiam Florentinorum capitaneus constitutus fuit, et pro Gregorio XI militavit. Vixit in magistratu annos 29. moritur A. C. 1384(…)”.
Il più recente compendio dinastico offre informazioni maggiormente dettagliate: “i Varano non avevano tardato un momento a dichiararsi (a favore dell’Albornoz, fedeli al papa) e mentre Gentile suo avo già vecchio accoglieva il legato a Camerino con ogni dimostrazione di affetto, Rodolfo gli si presentava colla spada in mano per combattere in suo favore. Egli fu eletto capitano generale della Chiesa nella Marca, ove diede grandi prove di talenti militari contro Malatesta Malatesta di Rimini, Francesco Ordelaffi di Forlì e Gentile da Mogliano di Fermo potenti capi di parte ghibellina. Prese Recanati nel 1355, e benchè la fortuna non gli fosse sempre fedele, guadagnò finalmente la battaglia di Castelfidardo, facendo prigione Galeotto Malatesta, e scacciando dalla Marca il fratello Malatesta, che giunse poi ad assediare in Rimini, forzandolo a dichiararsi vassallo della Chiesa. In premio di questi servigi fu eletto confaloniere di Santa Chiesa, e fu investito a titolo di vicario nel 1355 di Tolentino e S. Ginesio. E ritornato nella Marca d’Ancona, mentre il legato Albornoz combatteva contro i ghibellini dell’Emilia vi sottomise Ascoli, e ridusse Foligno e i Chiavelli suoi parenti signori di Fabriano a riconoscere nel papa il loro principe”.

Proprio la fortuna militare di Rodolfo ne oscurò il favore presso l’Albornoz, che dovette temere da parte sua l’insubordinazione e il tradimento, così come gli era stato adombrato da parte di Malatesta da Rimini, che intendeva vendicare con l’inganno la cocente sconfitta subita in campo aperto:

“Rodolfo fu dunque arrestato in Fermo ad un convito presso Giovanni da Oleggio, che colà era signore. Dopo un mese convenne però al legato di dargli libertà. Disgustato dell’oltraggio della prigionia, lasciò il servizio pontificio, e nel 1362 gli fu dato da’ fiorentini il generalato per l’impresa
di Pisa, ma non corrispondendo a’ loro desideri, tacciato di negligenza e di avarizia fu con poco onore licenziato 5 . Nel 1363 ebbe il generalato de’ perugini, a’ quali ricuperò Monte Fonteggiano, ove tutti i ghibellini, che lo difendevano, furon decapitati. Si fu in questi tempi che il papa, poco fidandosi forse di lui, ordinò al legato Albornoz di toglier da Camerino la Curia generale della Marca. In questa guisa si cominciò a consolidare maggiormente il potere dei Varano in quella città.
Quando nel 1367 Urbano V volle trasferirsi colla Sede apostolica dalla Francia in Italia, Rodolfo andò a raggiungerlo in Viterbo per fargli onore, ed accompagnatolo a Roma, portò nell’ingresso solenne che ebbe luogo il confalone papale colle chiavi. Dopo alcun tempo ebbe dal papa conferma de’ privilegi e delle signorie della sua casa. Nel 1370 benchè fosse poco grata la di lui memoria ad una parte de’ cittadini, fu eletto capitano del popolo in Firenze, e quindi ebbe il generalato dell’armi della repubblica nella guerra contro Barnabò Visconti, e condotta felicemente a termine l’impresa, fu pe’ suoi meriti creato co’ suoi successori cittadino fiorentino. Era morto in quell’anno Urbano V, che era ritornato colla sua sede in Francia, e Rodolfo si trovò al conclave, in cui fu eletto Gregorio XI. Dal 1305 i papi soggiornando in Avignone, non avevano però mai dimesso il pensiero di signoreggiare l’Italia, e mancando la loro presenza, i legati pontifici che vi erano mandati, adoperavano tutti i mezzi per riconquistare le provincie, che dalla Chiesa si eran perdute o che erano state date in vicariato a’ capi di parte, cedendole col titolo di vassallaggio per non perderle del tutto. Anche Rodolfo fu in pericolo di perdere Camerino per inganno del Cardinale di Burgos legato dell’Umbria, ma accortosi in tempo, aveva provveduto ai casi suoi. La condotta de’ legati destò in Italia nel 1375 un movimento generale di ribellione. Primi a dichiararsi contro Gregorio XI furono i fiorentini, ch’erano i più gelosi della libertà, e formatasi una lega, Rodolfo ne fu eletto capitano generale. Nel 1376 Macerata, una delle città ribellate alla Chiesa, elesse il Varano in suo signore.
Intanto egli si recò subito a Bologna, che si era ribellata al papa, e ch’era minacciata dal cardinal di Ginevra sceso in Italia nel 1376 con un esercito di brettoni. Memorabile fu la difesa, ch’egli ne fece, ed è noto che ai brettoni stanchi dell’insulto, che loro faceva di non venir mai a cimentarsi rispondeva, ch’egli non usciva da Bologna, acciocchè essi non v’entrassero. Nello stesso anno Gregorio XI vedendo a quanto pericolo era esposta l’autorità pontificia in Italia, si determinò a ritornare colla Sede apostolica in Roma, e vedendo che le sue forze militari non bastavano, fatta la pace separata coi Visconti, impiegò le persuasioni e le promesse per guadagnarsi de’ partigiani.
Anche Rodolfo nel 1377 venne al servizio del Papa, che lo creò suo capitano generale. Vogliono che si disgustasse co’ fiorentini, perchè era venuto l’Aucud al loro servizio, altri che sospettasse in essi la voglia di proteggere Fabriano, di cui s’era impadronito, e che voleva la libertà, non già i Varano per padroni. Qualunque sia stata la causa della defezione di Rodolfo, questa sconcertò tutti i piani immaginati dalla lega. I fiorentini adirati privarono della cittadinanza di Firenze il traditore Rodolfo che fu mitrato co’ demoni e co’ difetti nella faccia in vari luoghi della città, e spedirono contro di lui il conte Lucio Land e l’Aucud. Perdè Rodolfo una battaglia a Montelimone, dopo di che nel 1378 gli fu tolto anche Fabriano, ma tutto ciò non bastò per sottometterlo. Morì nel 1378 Gregorio XI che da alcuni si crede gli avesse conferito la dignità di marchese della Marca, e nato poscia lo scisma, che durò 39 anni, rimase al suo posto, difendendosi sempre valorosamente contro l’aggressioni de’ ghibellini. Gli era peraltro riuscito d’amicarsi nuovamente i perugini e i fiorentini nel 1382 soccorrendoli in occasioni di popolari tumulti, cosiche Perugia gli donò una casa, e Firenze sopprimette le condanne fatte contro di lui nel 1377. Morì Rodolfo in Tolentino nel 1384 riputato uno de’ migliori condottieri ed uno de’ personaggi più importanti del suo secolo (…) Da un trattato del 1380, Rodolfo appare in possesso di un esteso territorio dagli Appennini al mare, che comprendeva Città e Castelli importanti, quali: Tolentino, Amandola, Macerata, Montolmo, Civitanova e molte altre terre del ducato di Spoleto nell’alta valle del Nera. Così vasto dominio, diviso alla morte di Rodolfo tra fratelli e nipoti, si riunì poi nuovamente nelle mani del nipote Rodolfo di Gentile, sotto il quale la Signoria di Varano raggiunse sia per potenza che per estensione il primato fra le numerose Signorie della Marca meridionale”.
Rodolfo II ebbe dalla seconda moglie Camilla di Finuccio Chiavelli, signore di Fabriano6 una sola figlia, Elisabetta, andata probabilmente in sposa ad un Malatesta per consolidare una difficile alleanza fra due casate e due fazioni per lungo tempo ostili.
La signoria di Camerino fu dunque affidata per oltre un decennio a Gentile III, fratello di Rodolfo, e dopo il 1399 al figlio di questi, Rodolfo III, che nel 1385 aveva retto come Podestà il comune di Macerata e nel 1399 aveva militato per i Fiorentini impegnati in guerra contro i Forlivesi.
Rodolfo III “Innocentio VI militavit, a quo obtinuit territorium Civitatis Novae, et Ladislao Regi Neapolitano. Quinquagintaquatuor dicitur aluisse liberos naturales. Obiit anno Christi 1424. regiminis 25”.

Alla morte del padre, gli succedette nella signoria come “podestà del reggimento della custodia e del governo della città di Camerino e suo contado”. Il pontefice Bonifacio IX provvide a riconoscere i privilegi concessi alla sua famiglia; i papi successivi, da Innocenzo VII a Gregorio XII, gli assegnarono altre terre in vicaria: “fino a questo giorno Rodolfo godè sicurezza e pace ne’ suoi stati, ma avendo Gregorio voluto spogliare de’ loro possessi nella Marca i Migliorati, nipoti del defunto pontefice, nacquero tali sconvolgimenti in quella provincia che non fu difficile a Ladislao re di Napoli di approfittare dell’opportunità per invadere gli stati pontifici, aspirando in seguito al dominio sull’Italia. Rodolfo in mezzo a tanti sconvolgimenti non pensò che a conservarsi ne’ suoi domini, e sebbene sembri che si pronunziasse in favore di Ladislao, nulladimeno si tenne sempre saldo nell’amicizia con Braccio da Montone, il primo condottiero de’ suoi giorni, e che combatteva contro Ladislao. Nulla aveva più Rodolfo a temere della potenza di Roma, dal 1410, poichè la Sede Apostolica era disputata da Benedetto XII, ch’era nelle Spagne, da Gregorio XII, che s’era ricoverato presso i Malatesta in Rimino, e da Giovanni XXIII che aveva fissato stanza in Bologna.
Egli dovette però star sempre colle armi alla mano or contro i Malatesta, or contro i conti di Montefeltro, giacchè le vittorie di Ladislao furono interrotte particolarmente dall’arrivo in Italia di Lodovico d’Anjou. Morto Ladislao nel 1414, i perugini che in questa guisa avevano perduto il loro protettore, e non volendo trovarsi esposti al risentimento di Braccio, ch’era fuoruscito di Perugia, si rivolsero alla protezione di Carlo Malatesta, signore di Rimini. Rodolfo che aveva avuto il torto di rifiutare la sua alleanza a’ perugini, indispettito di vederli accorrere dai Malatesta, prese le armi contro di loro, in appoggio della fazione di Braccio Fortebracci da Montone a cui aveva dato in seconde nozze la figlia Nicolina 7 . Con improvviso ed audace colpo di mano, il Malatesta riuscì ad impadronirsi del castello di Beldiletto, dimora prediletta di Rodolfo. Il Signore si salvò in tempo con la fuga, ma lasciò prigioniera la moglie con alcuni nobili di Fabriano. Poco appresso il Malatesta, mentre tentava di portare soccorsi alla città di Perugia assediata, fu vinto da Braccio da Montone e dai Camerinesi che espugnarono la città (1416). Egli fu fatto prigioniero e consegnato in Camerino nelle mani di Rodolfo al quale dovette pagare centomila scudi per la propria libertà nonostante l’intromissione e le preghiere di ambasciatori Veneti e Fiorentini. Era in questi tempi adunato il concilio di Costanza. Fu impegno de’ padri, che si deponessero le armi delle fazioni in Italia, ne il risultamento delle loro fatiche fu inutile. Eletto finalmente Martino V dopo lunghissimo scisma nel 1417, Rodolfo, che in tempo di concilio non era mai stato molestato sul possesso delle sue signorie, ne ricevette conferma dal nuovo papa. Non fu così fortunato Braccio che fu scomunicato, ma Rodolfo prese a cuore l’amico suo che fu sciomunicato, ma Rodolfo prese a cuore l’amico suo che fu ricevuto in grazia da Martino V nel 1418. Aveva il Varano grandi obbligazioni a Braccio. Fino dal 1410 in Camerino s’erano scoperti indizi di malcontento contro i loro dominatori.
I figli di Rodolfo v’erano odiati per il loro orgoglio e la loro prepotenza. Le perorazioni di Braccio, ch’era stimato grand’uomo di guerra, avevano fortunatamente calmato lo sdegno de’ camerinesi.
Sopraggiunsero poi le guerre di Ladislao, e la popolazione rimase quieta. Una congiura fu scoperta nel 1417, e gli autori furono puniti. Rodolfo morì nel 1424, 2 maggio, nella villa di Beldiletto, padre di 64 figli ed avo dei signori di Lucca, Perugia, Padova e Rimini. Fu cagione della sua fine il rammarico della morte di Braccio, ch’era divenuto suo genero, e ch’era stato ucciso alla battaglia dell’Aquila. Pochi anni dopo la sua morte nacquero le dissenzioni domestiche, che fecero perdere alla famiglia la signoria di Camerino”.
Molti dei nomi dei numerosi figli nati a Rodolfo dalle tre mogli 8 lasciano un segno tangibile nella storia delle Marche e d’Italia: Antonio (+1456), monaco cistercense, è abate di Fiastra nel 1421, Venanzio, che sposa nel 1393 Sicinia di Guido da Polenta, signore di Ravenna, premuore al padre, prima del 1418; Giovanni, Gentilpandolfo, Piergentile, Berardo, governeranno per dieci anni dopo la morte del padre, fino ai tragici eventi del 1434. Per quanto attiene invece ai “ quinquagintaquatuor filios naturales”, che andavano ad assommarsi ai molti figli legittimi, di primo, secondo e terzo letto, va notato che il tratto di una esuberante fertilità maschile è e resta tipico delle società arcaiche, di impianto agropastorale, marcate da eventi bellici che inducono a cercare la protezione di un signore, al quale si attribuiscono spontaneamente le insegne dell’eroe, caratterizzato fra l’altro da una numerosa discendenza.
Dalla tradizione dell’epica classica, giungono fino a noi esempi notevoli al riguardo. La strategia familiare che consolida le alleanze politiche mediante la rete di parentele che un’accorta politica dinastica consente di intrecciare prosegue con le numerose figlie di Rodolfo: fra queste, infatti, Venere è data in sposa a Diodoro Petrelli di San Ginesio, condottiere al servizio di re Ladislao, Costanza nel 1402 va in moglie a Jacopo da Carrara di Padova, Ansovina nel 1421 sposa Pandolfo Malatesta, signore di Fano, Brescia e Bergamo, Guglielmina è data in moglie a Battista Chiavelli, signore di Fabriano, Piacentina (+ 11 settembre 1416) sposa un Guinigi, signore di Lucca, Venanzia è moglie di Pino Ordelaffi, signore di Forlì, Bianca va in sposa ad Antonio Cantelmi di Napoli, signore di Popoli, Tora (+ 1453) sposa nel 1404 Niccolò Trinci, signore di Foligno, Bellafiore (+ 19 settembre 1416) è data in moglie a Ludovico Migliorati, signore di Fermo; un’altra figlia va a
Roma, sposa di un Savelli. Di Livia e Plautilla, così come di Luca, Ansovino, Rinaldo, Ercole, poco sappiamo oltre al nome.
La numerosa discendenza, frutto dei tre matrimoni contratti da Rodolfo III, determinò le rivalità ed i conflitti che culminarono negli eccidi del 1433-1434. Alla morte del padre, infatti, Gentilpandolfo e Berardo, figli di Elisabetta Malatesta, furono associati nella signoria a Giovanni e Piergentile, figli di Costanza Smeducci. Gentilpandolfo, che nel 1414 aveva militato a fianco del padre nella guerra contro i Malatesta, era stato al servizio di papa Martino V: “ Gentilis Pandulphus militavit Martino
V Papa contra contra Ioannem II”.

Gli Annali Recanatesi del 1424 descrivono nel gennaio di quell’anno il ricco corteo di quaranta cavalli, dieci cavalieri e dieci dame con cui Gentilpandolfo si recò a visitare il Santuario di Loreto.
Alla morte del padre “divideva il dominio di Camerino con gli altri tre fratelli, e nelle divisioni del 1429-’30 a lui toccarono Sefri, Montalto, Col di Pietra, Serravalle, Tufo, Monte S.Polo d’Appennino, S. Venanzio, Pievebovigliana, Acquacanina, S.Maroto, Costa Feori, Col di Monte, Bolvello, Isola, Roccamattei, Fiugni e Monastero dell’Isola”. Berardo era stato a sua volta generale,o meglio “ Regis consiliarius”, nell’esercito di re Ladislao nella Marca e nell’Umbria: alla morte di questi, si schierò apertamente con Braccio da Montone, partecipando al suo fianco alla conquista di Roma. Così narrano infatti i Diari Romani: “Braccio da Montone dopo avere abbandonato Bologna, si insignorì di Perugia e quindi estese le sue conquiste fin presso Roma medesima. Ai di 9 giugno 1417 egli venne a Sant’Agnese, luogo sotto le mura, dove il card. Isolani con alcuni dei primari
cittadini andarono per abboccarsici”. Braccio da Montone intendeva, a suo dire, conquistare la città per conto del Papa futuro. I Romani, dopo le iniziali resistenze, furono indotti a capitolare: “il 16 di giugno di sera la città fu messa nelle mani di Braccio nel cui esercito era Berardo da Varano, con intesa che egli avesse intanto a esercitare la signoria in nome della chiesa e pure avesse la facoltà d’eleggere il senatore. Il card. Isolani fu ricettato dal comandante napoletano in Castel Sant’Angelo. Ai 10 di Agosto Sforza Attendolo in servigio della corona di Napoli, comparve colle sue genti in vicinanza della città e ai 26 di agosto Braccio, col condottier Tartaglia e con Berardo Varano, si partì da Roma e il giorno appresso lo Sforza vi entrò”.
Concluso lo scisma con l’elezione di Martino V, i perugini si avvalsero dell’abilità diplomatica di Berardo inviandolo a Costanza affinchè il pontefice riconoscesse Braccio da Montone come loro signore: “le aderenze di Berardo colla casa Colonna, cui Martino apparteneva, contribuirono a far dimenticare i torti che Braccio aveva verso la Chiesa coll’aver tentato di stabilire il suo dominio in Roma, cosicchè fu ricevuto in grazia dal pontefice con molta utilità della quiete d’Italia. Queste istesse aderenze conservarono ai Varano i loro domini, perchè non furono compresi nel numero dei feudatari che furono spogliati da Martino V, che volle ridurre all’obbedienza della Chiesa le terre infeudate, appena si trovò abbastanza forte di poterlo fare”.
Nella divisione dei castelli, a Berardo furono assegnate le rocche e le terre di Santa Maria, Caldarola, la Rocchetta, Fiordimonte, la Muccia, Crispiero, Agolla, Bolognola, Antico, Valcaldara, Casavecchia.
Il fratellastro Giovanni aveva seguito un analogo cursus honorum, militando dapprima con Braccio da Montone e Niccolò Piccinino, schierandosi poi a difesa di Martino V tanto da meritare in segno di riconoscenza il vicariato di Nocera Umbra. Fu al servizio della Repubblica di Firenze, del duca di Milano, della Repubblica di Venezia, che lo insignì del diritto di cittadinanza.
A lui toccarono nel 1429-’30 i castelli di Pioraco, Cessapalombo, Statte, Percanestro, Elci, Valle Sant’Angelo, Torricchio, Raimondo, Prefoglio, Copogna, la Pieve Torrigna, Fiagni, Giove, Valle di Ea, Frontillo, la Pieve Favera.
A Piergentile, nato in San Ginesio nel 1400 da Costanza Smeducci, toccarono i castelli di Fiordimonte, Borgiano, Vestignano, Dignano, Fiastra, Gagliole, Sorte, Colpolina, Corvenano, Massa, Gelagna e Rocca di Maio.
Fu proprio Giovanni, con i suoi tratti di amabilità e cortesia che lo rendevano bene accetto al popolo, ad alimentare contro di sè e contro il fratello Piergentile l’odio di Gentilpandolfo, “ch’era sommamente avaro e crudele, e strascinò Berardo a’ suoi consigli”.
Berardo era inoltre istigato dai perfidi ammonimenti di Arcangelo da Fiordimonte, che aveva interesse a fomentare la ribellione popolare contro i signori di Casa Varano: “costantenmente gli ripeteva, che alla morte di lui e del fratello Gentil Pandolfo, ambedue già vecchi, i camerinesi avrebbero portato Giovanni nato dalla matrigna, alla successione. Aggiungevagli che i suoi figli erano malvisti al popolo, poichè non v’era impressa qualità alcuna di peregrino e gentile”. Oltre a ciò, “Era noto che (Giovanni) godeva la protezione del duca di Milano, e si dubitò che quel duca procurasse di farlo signore di Camerino escludendone i fratelli, onde avere uomo tutto a se devoto nella guerra contro Eugenio IV. Questi dubbi furono esagerati al patriarca Vitelleschi governatore pontificio nella Marca (…)”. Ormai la macchina delle insidie, degli odi e dei sospetti era messa in moto, e si sarebbe rivelata inarrestabile: la strage cruenta culminò in due distinti episodi, l’uno segnato dagli inganni familiari, l’altro dalla violenza popolare. Gentilpandolfo e Berardo concertarono fra loro l’agguato che avrebbe dovuto assicurare la discendenza ai figli di quest’ultimo 9 : con la connivenza del cardinale Vitelleschi, legato pontificio nella Marca, “fu stabilito, che il patriarca dovesse chiamare a negozio i quattro fratelli nel suo passaggio per Sanseverino, e che Berardo scusandosi per l’infermità della gotta, vi spedisse i figli, come seguì”.
Piergentile fu imprigionato, condotto a Recanati e là decapitato, il 6 settembre 1433: “lasciò suo erede il duca di Milano, disposizione che non fu di alcun vantaggio alla sua casa”. Lo sventurato Piergentile, “dedito agli ozi e nutrito fra le delizie”, lasciò vedova Elisabetta di Galeazzo Malatesta, che alla notizia della morte oltraggiosa subita dal marito si rifugiò nel castello di Visso, insieme con i figlioletti Rodolfo e Costanza, destinati ad avere entrambi un ruolo di vitale importanza nella ricostituzione della casata. Forse sospettando l’inganno, Giovanni aveva declinato l’invito a recarsi dal cardinale. Tornati a Camerino, i nipoti “ritrovato Giovanni in camera del zio Gentilpandolfo, vennero seco lui ad alterco rinfacciandogli l’atto inossequioso verso il patriarca, e che questa sua condotta poteva essere la rovina della sua casa. Giovanni andò per uscire dall’appartamento e trovò i sicari del fratello Berardo, che lo uccisero a colpi d’accetta”. Era l’agosto 1433. Intanto, il duca di Milano aveva inviato nella Marca di Ancona Francesco Sforza, con l’intento di sottrarla al papa, protetto dalla Repubblica di Venezia. I Varano non potevano restare estranei alla contesa: “Berardo che godeva protezione dal papa, andò a Tolentino per porla in difesa contro lo Sforza, e colà fu ammazzato dal popolo (…) cui era in odio la sua tirannia, e per l’uccisione dei fratelli, molto più che quella città prima di Berardo era stata governata da Giovanni d’animo liberalissimo”. L’odio dei Tolentinati10 contro Berardo Varano fu la scintilla che dette l’avvio ad una rivolta popolare, consumatasi il 10 ottobre 1344 a Camerino contro Gentilpandolfo e i suoi numerosi nipoti: “mentre (…) era incamminato a’ divini offizj alla chiesa di San Domenico, fu da’ congiurati trucidato. Alcuni tra’ i nipoti erano fanciulli, e furon fatti morire percuotendoli ne’ muri della chiesa”. Morirono così Giovanni Venanzio, protonotario apostolico, Ladislao e Rodolfo Angelo, Gianfilippo, Bartolomeo, Ansovino. Le milizie dello Sforza entrarono in Camerino a sostegno dei congiurati, “saccheggiarono il palazzo de’ Varano, trucidarono due di essi, che vi si erano fortificati, e poi abbandonarono la città, che si governò con reggimento libero sotto la protezione della Chiesa”.
Intanto, morto a Tolentino Nicolò Mauruzi, la rocca fu ceduta alla comunità che ne ricompensò gli eredi, il fratello Battista ed i figli Cristoforo, Giovanni e Balduino, mediante la donazione delle case e dei poderi già proprietà di Berardo Varano, per una stima di duemila fiorini d’oro di camera. I tolentinati smantellarono la rocca, da sabato 13 a martedi 16 aprile 1435, presi dall’ansia distruttiva che spesso conclude un periodo di dominazione. La permuta dei beni fra gli eredi Mauruzi e la comunità fu sancita da papa Eugenio IV con una Bolla del dicembre 1438, quando ormai della rocca non rimanevano che le rovine. Seguirono dunque dieci anni travagliati, durante i quali la città di Camerino pagò a caro prezzo la libertà conquistata contro l’oltracotanza di Gentilpandolfo e di Berardo, esposta ai continui attacchi delle milizie mercenarie, soggetta al pagamento di pesanti tributi a Francesco Sforza, vicario della Chiesa, malgovernata dai capitani delle Arti. La fazione cittadina favorevole alla restituzione della Signoria si rinsaldò, sostenendo che venissero riconosciuti i diritti degli orfani di Piergentile e di Giovanni, scampati alla strage. Nel dicembre 1443, i giovanetti Giulio Cesare, figlio di Giovanni, e Rodolfo, figlio di Piergentile, furono acclamati nuovi signori di Camerino. Elisabetta, madre di Rodolfo, obbligata nel 1447 da papa Niccolò V ad uscire dal monastero perugino di Monteluce, dove aveva aderito al Terz’Ordine Francescano, esercitò prudentemente la reggenza fino al 1448. La salvezza di Giulio Cesare, che sarà il promotore e l’autentico artefice della stagione dell’umanesimo camerte, fu opera delle zie Tora Trinci, che lo fece fuggire da Camerino “facendolo trafugare in un fascio d’erbe”, e Guglielmina Chiavelli, che lo accolse presso di sè a Fabriano fino al 1435, quando una sollevazione popolare compì il massacro della famiglia signorile, anche stavolta presso una chiesa. Tora Trinci provvide ancora a scampare il bambino dalla strage, dapprima facendolo ricoverare presso un monastero, poi affidandolo alla vasta rete di parentele nelle città di Fossombrone e Faenza. Intanto Elisabetta Malatesta, dopo la morte di Giovanni, aveva trovato rifugio a Pesaro, insieme con i figli Rodolfo e Costanza. Il favore degli Sforza, sancito attraverso il matrimonio di Costanza con Alessandro, fratello minore di Francesco, celebrato presso la rocca di Sentino il 28 novembre 1444, garantì il ripristino della signoria, associando al potere i due cugini Rodolfo, allora tredicenne, e Giulio Cesare, di due anni più piccolo. Il 15 gennaio 1445, infine, la signoria di Pesaro viene ceduta dai Malatesta agli Sforza: Elisabetta Malatesta, reggente di Camerino per conto del figlio e del nipote, mette in atto una politica di sottile impianto strategico, finalizzata a tutelare con lungimiranza gli interessi dei giovanissimi Varano. Lo stesso papa Niccolò V aveva caldeggiato l’affidamento della reggenza alla vedova di Piergentile, poichè “senza una mano ferma e severa non era possibile di tener quieta la fazione nemica alla famiglia dominante, giacchè coloro che avevano avuto parte al massacro de’ Varano del 1434, anche dopo lungo numero d’anni potevano temere per se, o per le loro famiglie, le vendette de’ nuovi regnanti”. Ai due giovanetti fu assegnato come precettore e consigliere politico il saggio ed accorto Giovanni di Conte de’ Conti. Entrambi prodi nell’esercizio delle armi, Rodolfo e Giulio Cesare si segnalarono come capitani al servizio della Chiesa; esercitarono il potere civile in concordia e rettitudine, riuscendo a guadagnarsi ed a mantenere il consenso popolare opponendosi coraggiosamente alle insidie tanto da riuscire a sventare già nel 1448, appena usciti di tutela, una congiura ai loro danni. Elisabetta Malatesta, che si era ritirata presso il monastero delle Clarisse di Urbino dopo la morte prematura della figlia
Costanza, fu sollecitamente richiamata a Camerino, con l’assenso del Papa. Definitivamente pacificato lo stato, un anno più tardi (1449) potè far ritorno alla pace del chiostro. I due cugini conclusero a loro volta importanti accordi matrimoniali: Rodolfo sposò infatti Camilla d’Este, sorella naturale di Lionello, Giulio Cesare prese in moglie la giovanissima Giovanna, dei Malatesta di Rimini. Dalla discendenza di Rodolfo, morto nel 1464, derivò il ramo ferrarese di casa Varano.
Giulio Cesare fu protagonista della stagione più luminosa della dinastia, destinata a cedere di fronte alla straordinaria potenza di Cesare Borgia, che divisò di “spegnere tutt’e sangui di quelli signori che lui aveva spogliato” 11, nel tentativo di consolidare il suo nuovo principato.

http://www.storiadelmondo.com/1 Il ramo dei Varano originatosi da Accorambone si prolunga per quattro generazioni: oltre a Giovanni, capostipite degli Accoramboni, la prima generazione annovera Berardo, che una Bolla di papa Clemente IV accusa di ordire contro la Chiesa con alcuni suoi parenti, nel tentativo di impadronirsi di Tolentino, e Iacopo, vivente nel 1254, da cui nasce Rodolfo, vivente nel 1330, padre di Fidesmindo, erede del signore di Urbisaglia, Fidesmindo di Pietro, e podestà di Firenze nel 1327. Da Fidesmindo, nascono Berardo, Rodolfo, ricordato nella guerra della Lega formata nel 1367 contro Gregorio XI, Giorgio, podestà di Sanseverino nel 1351. Da Giorgio, “si fa discendere un Varano che andato col padre in Polonia si fece nome distinto nelle guerre di Curlandia al servizio del re Stefano Batori”.
2 La discendenza di Rodolfo II si arresta alla terza generazione: dei figli di questi, infatti, Berardo fu dapprima arcidiacono, poi vescovo di Camerino intorno al 1290, Sigismondo e Nuccio militando nell’esercito dello zio Berardo, morirono nel 1322 durante l’assedio di Recanati; solo Giovanni, podestà di San Ginesio nel 1328 e nel 1340, ebbe discendenza. Il figlio Rodolfo “nel 1342 era capitano di custodia della repubblica di Firenze. Nel 1351 ad istanza dell’arcivescovo di Milano Giovanni Visconti fu iscritto co’ discendenti alla cittadinanza di Perugia”. Nel 1388, era ancora in vita il figlio di quest’ultimo, Gentile.
3 Già nel 1196 una Varano, di nome Litta, era entrata a far parte della famiglia dei nobili di Tolentino, sposando Corrado Gentiloni di Rovellone.
4 Così la genealogia dei Varano, a proposito di Sofia: “di lei parla Bernardino Feliciangeli ne “Le più antiche memorie del monastero di Sant’Elisabetta di Camerino” pubblicate nel Picenum Seraphicum a pag. 139 vol. III° – 1917 – egli dice: “Di Sofia Varano tutto è ignoto. Tentiamo di rispondere almeno alla domanda chi fosse e in che tempo vivesse questa pia donna uscita dalla valorosa prosapia dei Varano. Fu la Fondatrice del Monastero chiamato poi di S. Elisabetta”. Il Lilii, storico di Camerino del Seicento, senza conforto di fonti sincrone scrisse che “Suor Sofia Varano eresse il monastero di S. Elisabetta nel 1336 (LILII, Historia di Camerino, II° – 136). Fu seguito dall’Antonucci:
“Venerabile Soffia da Camerino fondatrice del Monastero di S. Elisabetta in detta città … vedi studi di B. Feliciangeli”. Due ipotesi, purtroppo non suffragate da basi documentarie, appaiono conciliabili con il dato della tradizione: la nobile dama di casa Varano avrebbe potuto beneficiare l’istituenda comunità religiosa dotando generosamente il monastero, di cui a pieno titolo avrebbe potuto dirsi fondatrice, oppure, alla morte del marito Smeduccio, Sofia potrebbe aver scelto di ritirarsi in monastero, fondando così la comunità religiosa di Sant’Elisabetta.

5 Negli Annali pisani del 1361 si legge: “era comandante dell’esercito fiorentino in Val di Nievole, Bonifazio di Lupo di Parrana. Poi in Val di Era si impadronì del Castello di Ghiazzano. Il 16 luglio a Bonifazio di Lupo successe Ridolfo da Varano di Camerino più illustre di nascita il quale fece molti danni a Pisa e prese Cascina e Peccioli l’11 agosto”. Ancora la Storia degli Stati Italiani dalla caduta dell’Impero romano all’anno 1840 descrive dettagliatamente gli avvenimenti: “La guerra contro Pisa fu continuata dai Fiorentini nella state con ruberie devastazioni ed incendi nel contado Pisano. Addi 6 di luglio 1362 messer Bonifazio fu licenziato, e il comando dell’oste fu dato a messer Ridolfo da Camerino; il quale mentre si rimaneva inoperoso tra Peccioli e Chiazzano inValdera, aspettando nuovi rinforzi, i Pisani raunarono dentro l’Agosta di Lucia tutti i soldati stranieri ch’egli avevano in questa città: poscia avvertiti quei cento e poco più ghibellini abitanti in Lucia, di non uscire cogli altri, all’intimazione che si farebbe dalla città; non solo di far vista di apparecchiarsi ad uscire; accesero una candela e insieme mandarono un bando per terra, che ognuno sotto pena dei beni e della vita, avesse a sgombrar la città e il contado a mille canne presso la città, prima che compiesse d’arder quella candela. Vecchi, donne e fanciulle dovettero in fretta abbandonar le loro case e masserizi e andarsene raminghi senza saper dove. Ciò fatto i soldati uscirono da l’Agosta e occuparono la città. Il di 16 di luglio il generale de fiorentini (Ridolfo Varano) ripigliò le ostilità contro i pisani e continuolle con danno indicibile de’ nemici, al modo di prima. Peccioli, Montecchio, Laiatico e Toiano caddero in potere de’ fiorentini; e questi felici successi delle loro armi mossero finalmente anche i perugini a mandare gente in aiuto. Un tumulto nell’oste a cagione di certi condottieri (conte Nicolò d’Urbino, Ugolino de’ Sabatini da Bologna e Marcolfo de’ Rossi da Rimini) che domandavano paga doppia per la presa di Peccioli, costrinse il generale a ritirarsi (…) I fiorentini nel 1363 aveano trasferito il comando delle loro truppe a Messer Piero da Farnese togliendolo a Ridolfo Varano, il quale ripassò dalla parte del Papa per conservare Fabriano oltre Camerino”
6 Rodolfo era stato precedentemente sposato con Paolina, della famiglia di Gualtiero da Mogliano. Da questa unione, erano nati Fidesmondo, castellano della rocca di Telagio nel 1356, Berardo, premorto al padre nel 1361, Gentilina, andata in sposa a uno dei Malatesta di Rimini
7 Nicolina, o Niccolina, vedova di Galeotto Malatesta, nel 1420 andò in sposa a Braccio da Montone. Morì a Camerino nel 1428.
8 Rodolfo III sposò in prime nozze Elisabetta Malatesta; successivamente prese in moglie Costanza di Bartolomeo Smeducci di Sanseverino, vedova di Galeazzo Chiavelli, signore di Fabriano. Dopo la morte di Costanza (1420), sposò una figlia di Pagnone Cima, signore di Cingoli.
9 Gentilpandolfo non aveva discendenza maschile; dalla seconda moglie, Sveva di Berardo d’Aquino, conte di Loreto Aprutino, aveva avuto una figlia femmina, Orsolina, andata in sposa ad Ugone Trinci.
10 Un documento manoscritto stilato per conto della famiglia Mauruzi, già di proprietà del conte Pompeo Litta, conservato presso la Biblioteca Reale di Torino illustra così l’accaduto: “Ai 12 luglio 1434 fu morto Berardo; fu tolto lo stato di Tolentino ai Varano e facemmo popolo e il cassaro si tenne per dieci giorni, e vi era dentro Gian Filippo figliolo del detto Berardo e questo cassaro si ebbe per le mani del nostro capitano Nicolò da Tolentino, il quale a questo tempo era capitan generale dei Fiorentini, e detto Signor Nicolò ci tolse a reggere e a governare e a tener questa nostra città in
libertà”.

11 Così Niccolò Machiavelli, ne “Il Principe”, cap. VII, “ De principatibus novis qui alienis armis et fortuna acquiruntur”.

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